lunedì, dicembre 18, 2006

LA SCONOSCIUTA

Irena (Ksenia Rappoport) è una prostituta ucraina che riesce a scappare dal suo aguzzino verso un paesino del Veneto. Lì cerca con tutti i mezzi di farsi assumere come domestica da una famiglia di orafi. La loro figlia Tea, di 4 anni, è affetta da un handicap per cui non riesce a reagisce, non ha i riflessi pronti e non riconosce il pericolo, così, per esempio, ogni caduta diventa un trauma. Irena aiuterà la bambina a guarire e a difendersi.
La narrazione prende il via dall’arrivo della donna in Veneto. Di lei non si sa niente, ma tutti i particolari della sua storia emergono lentamente nel corso del film. Con un montaggio sapiente, il regista, Giuseppe Tornatore, svela l’intero retroscena - il motivo del viaggio, la fuga e il torbido passato della protagonista - mentre la storia va avanti: il tutto è filtrato dalla memoria di Irena.
Il film è un crescendo di emozioni e si rincorrono diversi colpi di scena che portano ad un inevitabile doppio finale. Ottima la direzione degli attori: l’ucraina Rappoport è bravissima, mentre la Gerini, nel ruolo della madre di Tea, è un po’ stinta. Michele Placido ci regala un’altra bella prova, confermandosi come uno dei migliori attori italiani in circolazione, assieme a Sergio Castellitto. Interpreta il protettore di Irena, un uomo repellente, viscido e violento: è totalmente calvo e Tornatore ce lo mostra spesso nudo e sudato, per aumentare il senso di disgusto ed accentuare l’intera caratterizzazione del personaggio.
Dopo Malèna, con cui era ritornato a parlare della sua Sicilia e della passione per il cinema, temi già presenti in Nuovo Cinema Paradiso, Oscar nel 1989, Tornatore ci regala un noir avvincente e allo stesso tempo poetico. Superbe le musiche del Maestro Morricone.

giovedì, dicembre 14, 2006

ERA ORA

Stamattina ho appreso una splendida notizia: Ennio Morricone riceverà, il prossimo febbraio, il Premio Oscar alla Carriera. Finalmente. Ieri il Pardo d'oro al Festival di Locarno e il Leone d'oro a Venezia, domani l'Oscar, il massimo riconoscimento dell'industria cinematografica. Per il Maestro si tratta della prima statuetta, dopo le 5 candidature per Mission, I giorni del cielo, Gli Intoccabili, Malena e Bugsy. Faceva parte di quel ristretto numero di artisti, come Kubrick e Orson Welles, candidati innumerevoli volte senza mai vincere. E questo non poteva che rafforzare quel mio legame ambiguo con gli Oscar, amati quando sono stretti dalle mani giuste, soprattutto se italiane, vituperati quando assegnati scandalosamente, come ad Halle Berry, per esempio, o non assegnati a chi aveva il giusto merito.
Questa volta nulla da eccepire. Chi più di Ennio Morricone lo meritava? 400 colonne sonore in quarant'anni di carriera, film grandiosi resi memorabili proprio dalle sue note: dagli spaghetti-western di Sergio Leone a C'era una volta in America; da La battaglia di Algeri ai film di Petri, Rosi, Lizzani, Tornatore; da Metti, una sera a cena a Il vizietto.
Finalmente un riconoscimento al cinema italiano, al grande cinema italiano, a tutti gli operai del suono, delle immagini, delle scenografie che non lo rendono secondo a nessuno. Se Hollywood ha gli effetti speciali, noi abbiamo i costumi di Milena Canonero e le luci di Vittorio Storaro; se gli americani hanno le belle facce, noi abbiamo le belle teste, le idee, il genio. Senza fare infantili generalizzazioni, io tifo sempre per il cinema di casa nostra.
A ottobre, ho avuto il piacere di ammirare il Maestro dal vivo: è stata una emozione unica. Le prime note de La battaglia di Algeri, de Gli Intoccabili e di C'era una volta in America, mi hanno fatto venire i brividi. Ma, paradossalmente, sono rimasto insoddisfatto. Volevo ascoltare i temi di Mission e di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto! Morricone, per il suo immenso repertorio, non è uno di quegli artisti che possono essere visti solo una volta nella vita, e poi basta. Per fortuna.

martedì, dicembre 12, 2006

IL DIAVOLO VESTE PRADA

Andrea Sachs (Anne Hathaway), aspirante giornalista, trova lavoro come segretaria personale di Miranda Priestly (Maryl Streep), direttrice di Runaway, la rivista più influente nel campo della moda, che le rende la vita un inferno. La sua esistenza è completamente cannibalizzata dall’imponente e dispotica presenza di Miranda, che la allontana lentamente dagli amici, dal compagno e dalla famiglia. Il mondo della moda le è totalmente estraneo, ma deve adattarsi in una feroce lotta per la sopravvivenza. E' costretta a scegliere tra il confortevole nido del passato e il lucente mondo della moda: farà la cosa giusta.
Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Lauren Weisberger, è tanto piacevole quanto prevedibile. Il mondo dell' haute couture non ne esce benissimo: l’eccessiva competitività porta ad un cinismo condiviso e legittimato un po’ da tutti, a cui la protagonista saprà rinunciare.
Il punto di forza è indubbiamente la recitazione delle due protagoniste, sia della timida Hathaway, che della straordinaria Maryl Streep, in un ruolo che probabilmente le regalerà l’ennesima candidatura agli Oscar. La scelta della musica è azzeccata e calza a pennello con il ritmo frenetico del montaggio di alcune sequenze. Perfetta la scelta di “Vogue” di Madonna per la scena della trasformazione di Andrea, da ragazza della porta accanto in elegantissima segretaria alla moda. Se sapete qualcosa di vestiti, ultime tendenze e stilisti, avrete sicuramente il piacere di gustarvi e apprezzare il film nella sua interezza.

mercoledì, novembre 22, 2006

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO

L’operaio Lulù Massa è il miglior cottimista della fabbrica B.E.N. di Milano, coccolato dal padrone e insensibile alle rivendicazioni del sindacato e della sinistra extraparlamentare. Dopo aver perso un dito in un incidente, si avvicina ai contestatori diventando il simbolo della rivolta. Perde la famiglia e soprattutto il posto di lavoro, ma, grazie alla contrattazione sindacale, viene riassunto e declassato alla catena di montaggio. “La classe operaia va in paradiso”, scritto e diretto da Elio Petri, è il primo film italiano dedicato agli operai e alla vita nella fabbrica. Uscito nel 1971, è un vero e proprio instant movie, con gli ingredienti e i protagonisti di quegli anni di lotte studentesche, autunni caldi e grandi scioperi. C’è il conflitto tra padroni e operai; il rapporto uomo-macchina; la lotta tra il sindacato riformista e le frange di studenti parolai rivoluzionari che si contendono il consenso dei lavoratori; l’occupazione delle scuole e gli scontri con la polizia. Al centro del film c’è condizione dell’operaio e l’alienazione: il protagonista porta al di fuori della fabbrica la sua stessa logica, valutando, per esempio, il prezzo delle cose in ore di lavoro retribuito.
Lulù Massa attraversa diverse fasi nel corso del film. Inizialmente è iperinquadrato nei ritmi del lavoro; da sedici anni in fabbrica, solo lui fa il 7% della produzione; è l’operaio modello da imitare e, per questo, odiato dai compagni. È un caso, insolito per l’epoca, di operaio che più che stare con il padrone, sta con la fabbrica, con la produzione e con il cottimo. È sordo a tutti i richiami e alle lotte del sindacato, ma il suo atteggiamento cambia in seguito all’incidente. Diventa il capo della rivolta, il simbolo dello sfruttamento padronale. È quindi l’incidente a fargli prendere coscienza della sua condizione, non gli slogan degli agitatori; è elevato a eroe della classe operaia dal gruppo ostile ai sindacati dei giovani marxisti, che al di là dei cancelli aizzano gli operai a ribellarsi. Ospita a casa sua un gruppo di compagni, ma proprio questo suo comportamento causa l’allontanamento della convivente e di suo figlio. In seguito a dei tafferugli con la polizia, viene licenziato e solo allora litiga con quel gruppo di studenti, capaci solo di parlare e incuranti del suo licenziamento (“a noi interessa un discorso di classe, non individuale…”, dice uno di essi). Il finale, che allude al titolo, è un po’ troppo allegorico: Lulù sogna il riscatto ultraterreno della classe operaia.
L’interpretazione di Gian Maria Volontè è a dir poco eccellente, così come quella di Salvo Randone, che interpreta Militina, un vecchio operaio finito in manicomio. Lulù ha paura di fare la sua stessa fine, soprattutto quando si accorge di aver assunto atteggiamenti ambigui che lo stesso Militina aveva poco prima di impazzire. Il manicomio sembra essere il naturale seguito della fabbrica e la pazzia diventa l’esasperazione della condizione operaia.
Doveroso menzionare la musica del maestro Morricone: una marcetta efficace e sostenuta che prende il via dai rumori della fabbrica. Geniale.
Il film lasciò strascichi polemici soprattutto a sinistra ed ebbe un grande successo internazionale: fu premiato con la Palma d’oro a Cannes, insieme a “Il caso Mattei”, diretto da Rosi, con protagonista lo stesso Volontè.

martedì, ottobre 24, 2006

AMERICAN HISTORY X

Derek Vinyard, fanatico neonazista, esce dopo 3 anni di carcere, per l'omicidio di due neri che cercavano di rubaregl il'auto. Il suo unico obiettivo è evitare che il fratello minore Daniel intraprenda la sua stessa strada. La vita in cella lo ha cambiato: nouvi rapporti umani gli hanno mostrato l'assurdità dell'ideologia che abbraccaiva. Il film ha un po' la pretesa di condensare in circa due ore l'intero percorso del protagonista, è un po' rigido e frettoloso nel mostrare le varie tappe che portano Derek dall'esaltazione ideologica alla redenzione. Nonostante questa esemplificazione riesce qua e là a seminare spunti di riflessione sociologica (il "reinserimento" dei neri dopo gli anni '60, il disagio sociale che sostiene il microcosmo dei sostenitori di estrema destra). Il filo conduttore del film è la violenza e la sua capacità di autoalimentarsi. Efficace l'alternanza tra il bianconero e il colore per i due piani temporali di narrazione, il passato e il presente. Da ricordare un paio di scene violente e la svastica tatuata sul petto del più che discreto Edward Norton. Un film sulla funzione riabilitativa del carcere?

lunedì, settembre 11, 2006

LACAPAGIRA

Può un film costato 300 milioni di lire incassarne ben un miliardo e diventare un vero e proprio cult, soprattutto nell'Italia meridionale? Si, se metti insieme gli attori giusti, un gruppo di attori "di strada", tutti pugliesi, cresciuti nei piccoli teatri locali, una buona dose di ironia e tanti riferimenti alla realtà metropolitana. Lacapagira è un bel film del 1999, girato dall'esordiente Alessandro Piva, Nastro d'argento e Ciak d'oro per la migliore opera prima, sulla piccola malavita barese. I protagonisti sono due delinquentucci sfigati che lavorano, spacciano cioè, per Nino, detto "U carrarmat". Il luogo adibito allo spaccio è il locale di Sabino: davanti semplice ludoteca, dietro, bisca clandestina. Il punto di forza del film è sicuramente il dialetto: è interamente girato in barese, ma distribuito con sottotitoli in italiano. Il dialetto, con tutto il colore del suo torpiloquio, è l'elemento fondamentale per radicare una storia in un certo contesto sociale. Lo stile è grottesco, con un finale a tinte drammatiche stemperate con spruzzi di ironia. Lacapagira è diventato un cult perchè i giovani si sono riconosciuti nei modi di dire e di comportarsi e perchè offre una fedele rappresentazione di una piccola realtà locale, ma largamente diffusa, non tipicamente meridionale, e quindi facilmente esportabile.

lunedì, agosto 14, 2006

IL PADRINO - LA TRILOGIA

"Il Padrino" è uno di quei film ai quali mi sono avvicinato, per vari motivi, con rispetto e un po' di reverenza.
Innanzitutto per il posto e il peso che ha nella storia del cinema. Poi per il modo con cui è confezionato, cioè la trilogia, che lo accosta ad un opera letteraria, alla Divina Commedia. E' innegabile il fascino che suscita in me la figura di Don Vito Corleone, il patriarca della famiglia. Anche se c'è solo nella prima parte, la sua ombra si sente anche nei capitoli successivi. Marlon Brando ha dato vita ad un personaggio unico e irripetibile, con quella mascella un po' cagnesca e la voce "soffocata". Non a caso fu premiato con L'Oscar nel 1972.
"Il Padrino" rappresenta per me la conquista italiana di Hollywood: dalla lingua ai personaggi, dal costume ai paesaggi al cibo, il Bel Paese è sempre presente. Nel secondo e terzo capitolo molte scene sono girate in Italia, in Sicilia e a Roma, e in più hanno partecipato all'opera molti attori italiani, tra cui il grande Gastone Moschin (Don Fanucci), Franco Citti e il felliniano Leopoldo Trieste. L'indimenticabile musica è del maestro Nino Rota, Oscar nel 1974, e poi sia Francis F. Coppola, che Mario Puzo sono di origine italiana: addirittura il regista discende da una famiglia lucana!!
Un ultimo accenno al cast: stellare, straordinario: oltre a Brando, ci sono Al Pacino e Robert De Niro, James Caan, Sterling Hayden, Robert Duvall, Diane Keaton e poi Andy Garcia, Talia Shire, John Cazale e Eli Wallach (il "brutto" del film di Sergio Leone, con il suo delizioso Don Altobello).
I 3 film offrono un ritrattofedele, romanzato ma realistico della Mafia, con la sua etica e le sue regole, le sue debolezze e il suo potere.
Il primo capitolo è tratto interamente dal libro di Mario Puzo, che collaborò alla sceneggiatura di tutte e tre le parti. Il nucleo centrale è la successione a sorpresa tra Don Vito e il figlio Michele (Al Pacino) alla guida della Cupola. Ci sono battute celebri e scene memorabili come la morte di Santino, il matrimonio di Costanza, per non parlare della testa del cavallo o del finale.
Il secondo capitolo, in parte tratto dal libro, si snoda su due livelli narrativi e cronologicamente diversi. Il primo mostra le vicissitudini dei Corleone fra tradimenti e rivoluzioni (Michele Corleone prevede la vittoria di Castro a Cuba nel 1959), mentre il secondo narra le origini di Vito Corleone, interpretato da un giovane De Niro, Oscar per il miglior attore non protagonista nel 1974.
Il terzo capitolo è il più infelice della saga. Peggio recitato a causa di Sofia Coppola nel ruolo della figlia di Michele Corleone, praticamente inespressiva e anonima. Poi per i contenuti: sembra un pasticcio in cui c'entrano tutti: politici, Vaticano, alta finanza, con i riferimenti agli scandali italiani, a Calvi e Andreotti. Secondo me il terzo capitolo lo hanno fatto solo per concludere la serie, anche se da anni si parla di una quarta parte, forse per ragioni economiche, basti vedere l'anno di uscita, il 1990 a 16 anni di distanza dal secondo capitolo. Dell'ultima parte si salva sicuaramente l'autentica rappresentazione della Cavalleria rusticana, che contribuisce ad aumentare l'enfasi e la magniloquenza del racconto.

giovedì, agosto 03, 2006

I MOSTRI

Se un giorno qualcuno mi chiedesse che cos’è l’ipocrisia, gli farei vedere questo film. L’ipocrisia, l’egoismo, il cinismo, l’incoerenza sono i dis-valori incarnati dai protagonisti dei 18 episodi di cui si compone “I mostri” di Dino Risi.
Il titolo allude ai personaggi interpretati meravigliosamente da Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. Il film offre un ritratto della società attraverso delle figure tipiche dell’universo maschile, che assumono comportamenti negativi nella vita privata come in quella pubblica. Niente e nessuno si salva dall’attenta analisi degli sceneggiatori: i giornali e la TV, i politici e gli avvocati e i preti. Sono smascherati i vizi comuni, e stereotipati, degli italiani, condivisi dai personaggi dei vari film della “commedia all’italiana”, di cui “I mostri” è un degno rappresentante.
Così come altri capolavori del genere, come “Il sorpasso”, o le opere di Monicelli, anche questo film si conclude con un finale amarissimo e sorprendente, che smorza l’ilarità che si prova durante la visione. Ecco una delle tante differenze con il cinema americano: l’assenza del lieto fine, che appiana tutte le negatività, che rende il film ottimista, più digeribile, come il miele che cosparge l’orlo di un bicchiere contenente uno sciroppo disgustoso. Il cinema italiano è si più pessimista, ma più realista, fatto non per sognare, ma per pensare.

lunedì, maggio 29, 2006

FREAKS

Il titolo del film può essere immediatamente tradotto in "scherzi della natura". I protagonisti del film sono davvero delle persone deformi, degli esseri la cui visione è al limite della sopportabilità. Liberamente tratto da un racconto di Tod Robbins, intitolato Spurs, il film uscì nel 1932 per la regia di Tod Browning, il maestro dell'horror reduce dal successo di Dracula. Purtroppo il successo non si bissò: costato più di 300 mila dollari, ne incassò appena la metà. Per la delusione Browning decise così di ritirarsi dal cinema. Nella didascalia d’apertura, gli autori del film denunciano i soprusi a cui erano sottoposti i “diversi” e sostengono che “il rifiuto verso di essi è frutto del condizionamento inflittoci dai nostri antenati”. Per difendersi i Freaks hanno messo a punto un loro personalissimo codice di comportamento, per cui il bene, o il male, subito da uno è bene, o male, di tutti. La storia, definita “uno spettacolo irripetibile”, getta uno sguardo colmo di pietà ed umiltà sul mondo dei “diversi”. I protagonisti sono veri fenomeni da baraccone: c’è il nugolo dei simpatici nani, la donna barbuta, il tronco umano, l’uomo scheletro e l’ermafrodito, perfettamente a loro agio nel circo ricostruito da Browning, ex saltimbanco professionista. Ecco la trama: l’avida trapezista del circo sposa per denaro il nano Hans , con lo scopo di ucciderlo. La scena culminante del film è proprio il banchetto nuziale: i Freaks offrono da bere alla sposa per il rito di iniziazione/accettazione, intonando l’agghiacciante coro “ti accettiamo, ti accettiamo, una di noi, una di noi…”. Ma la donna, ubriaca, rifiuta, maledicendo tutti i Freaks. Scoperto l’inganno, i Freaks si vendicano sulla trapezista e la “costringono” a diventare realmente una di loro. Il film si evolve in maniera circolare, con un prologo che svela quasi l’epilogo e aumenta la dose di suspence per tutta la sua visione. Purtroppo la versione distribuita fu mutilata dalla censura che ne ridusse la durata di circa 30 minuti, eliminando le scene più cruenti della vendetta. Questo perché alla prima, il film fu accolto dalle polemiche e dagli svenimenti delle benpensanti signore statunitensi. La pellicola presenta un chiaro rovesciamento di ruoli ed è apparentemente difficile distinguere i buoni dai cattivi. Ma non si può non essere dalla parte dei Freaks e colpevolizzare la bramosa trapezista rea di averne sfruttato tutta la purezza. E allora è lei la vera diversa, perchè incapace di accettare la diversità. Ecco il messaggio morale che il film vuol lasciare in eredità ai suoi spettatori. Freaks è il film maledetto della storia del cinema. La sua visione non può non essere accompagnata da un senso di benevola repulsione e di sincera meraviglia. È uno di quei film che consiglio con tutto il cuore… e poi dura solo un’ora e venti…

JFK - UN CASO ANCORA APERTO

Il procuratore distrettuale di New Orleans, Jim Garrison - un quasi anonimo Kevin Costner- è uno dei pochi a non credere alla tesi dell' omicidio di John F. Kennedy, montata ad hoc dal Pentagono: il 22 novembre 1963, a Dallas, uno squilibrato comunista, Lee Harvey Oswald ( Gary Oldman) colpisce mortalmente con 3 pallottole il presidente americano. Garrison vuole dimostrare invece la tesi del complotto, con il sospetto di un colpo di Stato: Kennedy è stato ucciso dalla CIA, i servizi segreti americani, con la complicità di un gruppo di esuli anticastristi, per le sua politica giudicata troppo morbida verso i nemici comunisti. La spedizione di un gruppo di oppositori castristi alla Baia dei Porci, voluta dal Presidente per rovesciare Castro, era stata un fallimento e Kennedy non voleva ripetere l'esperimento; la crisi missilistica del '62 tra USA, Cuba e Unione Sovietica si era risolta con un' accordo più o meno segreto con Kruscev che aveva deluso lo schieramento conservatore e inoltre, entro la fine del '63, la Casa Bianca avrebbe dato il via al ritiro dei soldati americani dal Vietnam.
Il film è un perfetto legal thriller. Il regista e sceneggiatore Oliver Stone l'ha tratto dal libro "On the trail of the assassins", scritto proprio da Jim Garrison, l'unico ad aver portato in tribunale il "caso JFK". Le 3 ore del film scorrono quasi inconsapevolmente: il ritmo è serrato e la musica tagliata perfettamente su un montaggio nervoso ed efficace. Sono incluse anche immagini documentaristiche dell'epoca e l'uso alternato del colore e del bianco e nero esprime perfettamente l'alternanza tra presente e passato. E poi è ottimamente recitato. Oltre a Costner e Oldman, ci sono Kevin Bacon e Tommy Lee Jones, nella parte di due omosessuali, Sissy Spacek e Joe Pesci, il più bravo caratterista di Hollywood, oltre ad una serie di deliziosi cammei: da Lemmon e Matthau, a Donald Sutherland a John Candy, fino a "er Monnezza" Tomas Milian, di origini cubane, nella parte di un patriota anticastrista!!
Il film cerca di fare luce su un caso ancora non chiarito, destinato probabilmente a non esserlo mai. Se è vera la tesi di Garrison, allora il marcio è presente non solo in Italia. Anche gli Stati Uniti non sono immuni alla regia occulta dei servizi segreti, degli apparati deviati dello Stato che tramano nell'ombra e sulla pelle dei cittadini. Il mio livello di indignazione va al di là di ciò che ho provato pe le malefatte di casa nostra, perchè il paese esportatore degli ideali più puri non deve cadere in tentazione. O almeno non dovrebbe. Durante la visione del film infatti sono stato sfiorato dal dubbio: e se tutto qullo che è successo era giustificabile in un mondo la cui sorte era affidata ai capricci delle due superpotenze?
L'unica cosa che non mi è piaciuta di "JFK" è stata la deriva eccessivamente zuccherosa che la sceneggiatura ha toccato in diversi punti. Oliver Stone sarà pure un regista "antisistema", ma il sentimentalismo di cui è intriso il film non è da meno ai vari polpettoni hollywoodiani.

lunedì, maggio 22, 2006

LA GRANDE ABBUFFATA

Quattro amici (Mastroianni, Piccoli, Noiret, Tognazzi, il meglio che si poteva chiedere!) si ritrovano in una villa parigina per “un seminario gastronomico”. Ma il loro incontro prefigura un macabro epilogo: un suicidio. L’intenzione è di morire dolcemente, godendo smodatamente dei due grandi piaceri della vita: il sesso e il cibo. Si servono così di tre disponibili fanciulle a cui si aggiunge una generosa maestrina che sarà per loro madre, amante, moglie ma soprattutto muta testimone della loro orrenda fine. La sceneggiatura, ricca di humor nero, regge bene e, a mio avviso, ha una sola pecca: i personaggi sono poco analizzati caratterialmente per cui non mi è nota la ragione del suicidio. Con “La grande abbuffata”, Ferreri ottiene nel 1973 un buon successo internazionale di critica e di pubblico, riuscendo nel suo intento di mostrare gli eccessi e l’autolesionismo della pingue società capitalistica. Questo film mi fa naturalmente pensarea ad un’altra pellicola limite del cinema italiano. Due anni più tardi Pier Paolo Pasolini firmerà la sua ultima opera: Salò o le 120 giornate di Sodomia, un vero pugno nello stomaco, crudo e a tratti visivamente insopportabile. Da “La grande abbuffata” il regista friulano recupererà diversi elementi narrativi, come i quattro sadici fascisti, che scaricano le loro perversioni non su se stessi, come il film di Ferreri ma sui ragazzi rapiti, l’ambientazione, una villa-prigione nella Repubblica di Salò, gli echi letterari, e le quattro meretrici che eccitano oralmente e incitano all’azione i quattro gerarchi con i loro raccontini. Il legame tra il piacere, l’eros e la morte ritorna e si acuisce. Il sesso, quel tipo di sesso, violento, esplicito, sporco, diverso dall’esperienza primaverile della joix de vivre della Trilogia della vita (Il decameron, Il fiore delle mille e una notte e I racconti di Canterbury) è il segno dello sfruttamento, della mercificazione e del declassamento della dignità. Entrambi i film si chiudono poi con un finale quanto mai criptico:speranzoso quello di Pasolini,grottesco quello di Ferreri.

VIALE DEL TRAMONTO

Joe Gillis (William Holden) si rifugia in una sontuosa e decadente villa fin de siècle, per nascondere la sua automobile che vorrebbero requisirgli. La villa è di Norma Desmond, celebre attrice del muto, interpretata magistralmente da Gloria Swanson. Joe si farà mantenere da Norma, innamorata di lui, e deciderà di correggere una sua sceneggiatura che dovrebbe rilanciarla nel firmamento hollywoodiano. E meschinamente contribuirà a rinfocolare l’illusione dell’attrice, facendola sentire di nuovo desiderata. Contemporaneamente, lavora nottetempo e in gran segreto, alla stesura di un altro testo con una giovane e piacente collaboratrice che susciterà le gelosie della star. La protagonista vive nell’ovattato mondo dei ricordi, incapace di accettare la fine del successo, decretato semplicemente dall’avvento del sonoro. Quotidianamente proietta nel suo pomposo salone tutti i suoi vecchi successi ed è convinta di poter dare ancora qualcosa al mondo del cinema. La sua immagine può essere riassunta in una sola battuta: ”Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo”. Norma Desmond è vittima di una schizofrenia che assumerà toni drammatici alla fine del film. Azzeccata è la scelta del regista Billy Wilder di affidare al perverso e hitchkockiano Erich von Stroheim, che aveva realmente diretto la Swanson nell’età d’oro del muto degli nni ’30, la parte dell’ex regista e maggiordomo dell’attrice. Sicuramente, insieme ad “8 e ½”,è il più bel film mai realizzato sul cinema, autoreferenziale, ma non auto celebrativo, con il quale Wilder ci mostra, senza indulgenze, il volto triste di Hollywood e di una attrice avviata verso il tristemente noto Sunset Boulevard. Questo film segna una incursione del regista nel genere drammatico, diverso dalla commedia per cui ha firmato successi come ”A qualcuno piace caldo” e “Quando la moglie è in vacanza”. Il film è narrato dalla voce fuoricampo del protagonista che compare cadavere all’inizio: così Wilder ci anticipa la fine del film e ci obbliga a seguirlo! Geniale! La pellicola, impreziosita dai cammei di Cecil B. de Mille e Buster Keaton, nel ruolo di se stessi, fu candidata a 11 premi Oscar, portandosi a casa 3 statuette per la sceneggiatura originale, per la scenografia e per le musiche. Amaro, sconvolgente e attuale. Un assoluto capolavoro che consiglio di vedere a tutti i costi!! Quando l’ho visto ho pensato: “mamma mia che cosa fa il successo!!”. La celebre frase dell’immortale Giulio Andreotti, “il potere logora chi non ce l’ha”, mi è parsa proprio inadatta!! Il film mi ha lasciato un profondo senso di desolazione, mi ha fatto provare vergogna per tutti quegli artisti, cantanti e attori, che vivono arrampicati sul passato e che godono di un successo oramai agli sgoccioli. A questi consiglio vivamente il ritiro!!

mercoledì, aprile 05, 2006

INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO

L'ispettore capo della Sezione Omicidi, un perfetto Gian Maria Volontè, uccide la provocante compagna Augusta Terzi, interpretata da Florinda Bolkan. Promosso all'Ufficio Politico, interviene nelle indagini dell'omicidio, dopo aver seminato volontariamente prove della sua colpevolezza nella casa della vittima. Cerca di dimostrare la sua insospettabilità, in quanto la sua figura è incarnazione della legge e dello Stato. Gli sceneggiatori Ugo Pirro ed Elio Petri delineano il ritratto di un uomo megalomane e presuntuoso, che si prende gioco dei suoi sottoposti e di chi sta guidando le indagini, incapaci di risolvere il caso, ma soprattutto di muovere accuse nei suoi confronti, per paura, piaggeria o per spirito di corpo. Il finale paradossale comunica solo una cosa: il Potere è intoccabile. La pellicola si chiude con una citazione di Kafka:"qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano". Il film del 1970, all'uscita nelle sale fece discutere per la sua spudorata attualità. Nel dicembre del 1969, una bomba era esplosa nella Banca dell'Agricoltura a piazza Fontana a Milano, causando la morte di 17 persone e ferendone 88. Su quella strage cadde l'ombra dell'eversione di destra e il pesante sospetto della connivenza statale e dei servizi segreti, avvalorato dal tempo e dall'esito delle indagini, evidentemente fuorviate. Oggi dopo quasi vent'anni non si conoscono ancora gli esecutori, ma soprattutto i mandanti di quell'orrenda strage. Il tema politico del film emerge prepotentemente in una trama da romanzo giallo: lo spattatore infatti capisce solo alla fine se il protagonista rimane impunito o meno. "Indagine..." riscosse un meritatissimo successo internazionale: già Premio della Giuria a Cannes, ottenne l'Oscar per il miglior film straniero.

lunedì, marzo 27, 2006

LA CIOCIARA

Per sfuggire ai bombardamenti alleati del 1943, Cesira, interpretata da un'ottima drammatica Sofia Loren, decide di lasciare Roma con la figlia tredicenne Rosetta. Nel suo paese natale, S.Eufemia, vivrà i drammi della guerra e accoglierà l'arrivo degli anglo-americani, che dalla Sicilia risalgono la penisola, aiutati anche dagli eserciti africani. Un'orda di soldati marocchini, lasciati inspiegabilmente liberi, sorprende in un casolare abbandonato le due donne. Su Cesira e Rosetta sarà consumata una brutale violenza. Tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia, "La ciociara" è una delle massime vette espressive del neorealismo e dell'intera produzione di Vittorio De Sica. Ciascuno di noi ha il dovere morale di vedere questo film. Nelle scuole italiane dovrebbe esserci l'obbligo di proiettare capolavori come La ciociara o Roma città aperta, che possono spiegare a pieno titolo la storia italiana. Una delle caratteristiche forti del neorealismo è la sua struttura narrativa. I grandi fatti storici sono narrati attraverso i drammi personali, sono filtrati attraverso le piccole storie degli italiani. Perchè a fare la Storia non sono solo i Capi di Stato e i generali, ma soprattutto gli uomini, la gente comune che vive in prima persona le nefandezze di una guerra. La situazione caotica e drammatica dell'esercito italiano dopo l'8 settembre è espressa benissimo dal senso di smarrimento e dalla confusione di Alberto Sordi in "Tutti a casa" di Comencini; l'urlo di Anna Magnani in "Roma città aperta" o gli sguardi dei bambini di "Sciuscià" sono molto più eloquenti di pagine di manuali di storia. Ne "La ciociara", Cesira è la classica italiana che aderisce superficialmente al fascismo, che si è fatta ubriacare dall propaganda del regime e che contesta al Duce solo l'entrata in guerra. Un incontro importante a S.Eufemia è quello con Michele (J.P.Belmondo), idealista antifascista che si sacrifica per salvare la vigliacca comunità locale da un gruppo di tedeschi. In una scena del film, Michele chiede a due soldati inglesi cosa pensino dell'Italia. Questi rispondono e citano Leonardo e Michelangelo...Allora Michele in un impeto di fiero nazionalismo, ribatte dicendo che quello rappresenta il passato, mentre bisogna puntare sul futuro, sui giovani pieni di speranza come Rosetta. Ecco: lo stupro su Rosetta è una violenza su tutti gli italiani, è macchiare di sangue la storia e l'avvenire dell'Italia. Per sempre. La guerra è una ferita difficile da rimarginare, come uno stupro. "La ciociara" è Sofia Loren, che dà vita ad un personaggio intensissimo. Una "madre-coraggio" disposta a tutto per salvare la figlia, capace anche di chiederle scusa per non aver capito la sua reazione dopo lo stupro. Per questa interpretazione, la Loren fu premiata con l'Oscar per la migliore attrice protagonista.

venerdì, marzo 17, 2006

GIAN MARIA VOLONTE', UN CASO ALL'ITALIANA

Com’è noto, l’Italia soffre della pessima abitudine di riconoscere o rivalutare un artista solo dopo la sua morte. È successo con Totò, Franchi e Ingrassia, ma non è successo con tutti. Vagano ancora nel limbo del dimenticatoio registi come Germi e Ferreri, oppure attori come Tognazzi e Volontè. Sono passati già 10 anni dalla morte di Gianmaria Volontè, eppure continua l’ostracismo nei suoi confronti. Forse perché il suo nome è legato ad un certo tipo di cinema,al cinema-politico-di denuncia degli anni ’70. Volontè ha lavorato infatti con Elio Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso), Francesco Rosi (Il caso Mattei, Cristo si è fermato a Eboli), Bellocchio, Pontecorvo, Lizzani, ma anche con Leone (Per un pugno di dollari) e Amelio (Porte aperte). Indimenticabile resta la sua interpretazione viscerale di Bartolomeo Vanzetti in “Sacco e Vanzetti” di Montaldo. Le sue oculate scelte artistiche e professionali erano sempre accompagnate da un forte impegno politico e sociale. Abbandonò le riprese del film “Metti, una sera a cena” perché ritenuto troppo “borghese”, capeggiò il sindacato degli attori nella lotta “voce-volto” per l’introduzione della registrazione del suono in presa diretta e aiutò il terrorista Scalzone a fuggire in Francia. Volontè fu dunque un attore antisistema, anarchico e pieno di talento. Un patrimonio della cultura italiana, apprezzato più all’estero che in patria. Un attore volutamente dimenticato perché scomodo, ma osannato da chi ama veramente il bel cinema italiano.

lunedì, marzo 13, 2006

QUARTO POTERE - "IL FILM PIU' BELLO DEL MONDO"

Un giornalista ricostruisce la vita del miliardario americano Charles Foster Kane per scoprire il significato della parola “Rosebud”, pronunciata poco prima di morire. La pellicola mostra l’ascesa e il crollo del “più grande magnate della stampa di ogni tempo”, ispirato alla figura di Rundolph Hearst, editore degli anni ’30. All’ apice del suo successo, Kane possiede 37 giornali, diverse case editrici e stazioni radio, 2 sindacati, negozi, industrie e una miniera d’oro. La sua carriera politica però è stroncata sul nascere, durante la campagna elettorale per la carica di Governatore, da uno scandalo sessuale che ne compromette la vittoria. Il titolo della versione italiana (titolo originale “Citizen Kane”) si riferisce alla stampa, massimo strumento di controllo della società civile, capace di influenzare, manipolare e forgiare l’opinione pubblica. “La gente penserà solamente quello che voglio io”, ama ripetere Kane, rinnegando lo spirito libertario del suo primo giornale. L’Inquirer infatti era nato per difendere i diritti del cittadino: la stampa nella funzione di “watchdog”, implicitamente riconosciuta nel Primo Emendamento della Costituzione americana, che degenera in arma di potere. Citizen Kane è un film megalomane, austero, come il suo protagonista. Una pietra miliare nella storia del cinema, che dopo la sua uscita non fu più lo stesso. Scritto, diretto e interpretato da Orson Welles, il suo punto di forza è il montaggio. La vita di Kane è evocata da 4 testimoni e il loro racconto è scandito da diversi flashback. Welles introduce elementi silistici straordinari: pone l’obiettivo della macchina da presa nei punti più impensabili, come nella sfera di cristallo che Kane lascia cadere morendo, o sul pavimento, regalandoci inedite inquadrature dal basso verso l’alto. Candidato a 9 premi Oscar, a causa del boicottaggio dello stesso Hearst, portò a casa solo la statuetta per la miglior sceneggiatura originale, scritta da Welles e Herman Mankiewitz.

venerdì, marzo 10, 2006

ANCORA CINEMA A MATERA...

La splendida città di Matera continua ad esercitare il suo fascino. Sabato 11 e domenica 12 Marzo, il vecchio quartiere dei Sassi ospiterà le riprese di 5 scene di Omen 666, prodotto dalla 20th Century Fox. Il film è un remake di una vecchia pellicola del 1975 con Gregory Peck, Il presagio, sull'Anticristo. Il successo, e lo scandalo, de La Passione di Mel Gibson, quasi interamente girato a Matera, ha sdoganato la Città dei Sassi nel mondo! Ha sostenuto poi lo sviluppo del territorio e il turismo: a Pasqua del 2004 c'è stato il boom di turisti, attratti dal film di Gibson. Omen 666 è solo l'ultimo di una lunga serie di film girati in terra lucana. Il territorio ferino, aspro, antico e sconfinato delle Murge ha incantato il genio di Pasolini, che vi ha ambientato Il Vangelo secondo Matteo, e poi Lattuada, Tornatore, Rosi, Zampa e persino un Richard Gere di annata: fu lui il protagonista di uno sfortunatissimo King David. La somiglianza con il territorio antichissimo di Gerusalemme è il pretesto perfetto per scegliere Matera come scenografia naturale di film a carattere religioso, sacro o profano, come dimostrano i casi di Pasolini o di Omen 666. A pieno titolo possiamo chiamare Matera la Cinecittà del Sud, ma tutto al naturale...

giovedì, marzo 09, 2006

RAPINA A MANO ARMATA, OVVERO COME IMPARAI A DUBITARE DI QUENTIN

L’epilogo di Rapina a mano armata (1956), il capolavoro noir di Stanley Kubrick, lascia davvero l’amaro in bocca allo spettatore e dimostra come un colpo di coda del destino possa improvvisamente smontare le imprese dell’uomo.
Johnny Clay (Sterling Hayden) organizza il colpo della vita: assalire un ippodromo in una piena giornata di corse con l’aiuto di sei complici ai quali è affidato un particolare compito. E nella narrazione dell’esecuzione della rapina si esalta la quintessenza della maestria di Kubrick. Con un montaggio efficace ci mostra dapprima le sequenze dei singoli protagonisti all’azione e poi tutto contemporaneamente. Il film procede quindi per flashback e flashforward, scanditi dalla voce fuori campo. Bellissima la fotografia in bianco e nero.
Eccellente la prova d’attore di Sterling Hayden, con l’indimenticabile maschera da clown, supportato, come nelle successive fatiche del regista, da un cast di perfetti caratteristi.
Uno spettatore attento si accorgerà però che Rapina a mano armata è stato il film da cui ha attinto a piene mani quel mattacchione e cinefilo incallito di Quentin Tarantino. Come non riconoscere in Jackie Brown e ne Le iene echi Kubrickiani? Se in Jackie Brown c’è una certa somiglianza nell’uso disinvolto del montaggio, che esalta in maniera ancora più stupefacente l’elemento temporale, ne Le Iene Tarantino recupera addirittura diversi elementi della pellicola in questione: il poliziotto infiltrato, il tradimento e la vendetta, il triello finale nel quale tutti restano uccisi. Nessuno dubita della originalità o dei meriti del regista “pulp”, ma attenzione prima di gridare subito al capolavoro e alla novità assoluta.
Quindi diamo a Kubrick ciò che è di Kubrick e a Tarantino ciò che è di Tarantino...

mercoledì, marzo 08, 2006

Ouverture

Ciao a tutti, sono Vito ho 21 anni e studio scienze politiche a Roma. La passione che mi ha spinto a creare questo blog è il cinema. Un mio sogno nel cassetto è vincere un Oscar, ma mi accontenterei anche di scrivere di cinema nella redazione di un grande giornale! Insomma un giornalista con il pallino della celluloide. Mi rivolgo a chi non si addormenta di fronte ad un film in bianco e nero... scriverò con modestia e onestà! A presto!