mercoledì, novembre 22, 2006

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO

L’operaio Lulù Massa è il miglior cottimista della fabbrica B.E.N. di Milano, coccolato dal padrone e insensibile alle rivendicazioni del sindacato e della sinistra extraparlamentare. Dopo aver perso un dito in un incidente, si avvicina ai contestatori diventando il simbolo della rivolta. Perde la famiglia e soprattutto il posto di lavoro, ma, grazie alla contrattazione sindacale, viene riassunto e declassato alla catena di montaggio. “La classe operaia va in paradiso”, scritto e diretto da Elio Petri, è il primo film italiano dedicato agli operai e alla vita nella fabbrica. Uscito nel 1971, è un vero e proprio instant movie, con gli ingredienti e i protagonisti di quegli anni di lotte studentesche, autunni caldi e grandi scioperi. C’è il conflitto tra padroni e operai; il rapporto uomo-macchina; la lotta tra il sindacato riformista e le frange di studenti parolai rivoluzionari che si contendono il consenso dei lavoratori; l’occupazione delle scuole e gli scontri con la polizia. Al centro del film c’è condizione dell’operaio e l’alienazione: il protagonista porta al di fuori della fabbrica la sua stessa logica, valutando, per esempio, il prezzo delle cose in ore di lavoro retribuito.
Lulù Massa attraversa diverse fasi nel corso del film. Inizialmente è iperinquadrato nei ritmi del lavoro; da sedici anni in fabbrica, solo lui fa il 7% della produzione; è l’operaio modello da imitare e, per questo, odiato dai compagni. È un caso, insolito per l’epoca, di operaio che più che stare con il padrone, sta con la fabbrica, con la produzione e con il cottimo. È sordo a tutti i richiami e alle lotte del sindacato, ma il suo atteggiamento cambia in seguito all’incidente. Diventa il capo della rivolta, il simbolo dello sfruttamento padronale. È quindi l’incidente a fargli prendere coscienza della sua condizione, non gli slogan degli agitatori; è elevato a eroe della classe operaia dal gruppo ostile ai sindacati dei giovani marxisti, che al di là dei cancelli aizzano gli operai a ribellarsi. Ospita a casa sua un gruppo di compagni, ma proprio questo suo comportamento causa l’allontanamento della convivente e di suo figlio. In seguito a dei tafferugli con la polizia, viene licenziato e solo allora litiga con quel gruppo di studenti, capaci solo di parlare e incuranti del suo licenziamento (“a noi interessa un discorso di classe, non individuale…”, dice uno di essi). Il finale, che allude al titolo, è un po’ troppo allegorico: Lulù sogna il riscatto ultraterreno della classe operaia.
L’interpretazione di Gian Maria Volontè è a dir poco eccellente, così come quella di Salvo Randone, che interpreta Militina, un vecchio operaio finito in manicomio. Lulù ha paura di fare la sua stessa fine, soprattutto quando si accorge di aver assunto atteggiamenti ambigui che lo stesso Militina aveva poco prima di impazzire. Il manicomio sembra essere il naturale seguito della fabbrica e la pazzia diventa l’esasperazione della condizione operaia.
Doveroso menzionare la musica del maestro Morricone: una marcetta efficace e sostenuta che prende il via dai rumori della fabbrica. Geniale.
Il film lasciò strascichi polemici soprattutto a sinistra ed ebbe un grande successo internazionale: fu premiato con la Palma d’oro a Cannes, insieme a “Il caso Mattei”, diretto da Rosi, con protagonista lo stesso Volontè.